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The Legend of Ochi

Un film di Isaiah Saxon

The Legend of Ochi, film diretto da Isaiah Saxon, racconta la storia di una giovane ragazza, Yuri (Helena Zengel), cresciuta in un villaggio remoto, nel quale le viene vietato di uscire dopo il tramonto e le viene insegnato a temere le creature della foresta. La giovane, però, dopo essere scappata di casa, scopre di essere in grado di comunicare con una rarissima specie animale che vive nella foresta, nota con il nome di ochi.
Yuri rinviene un piccolo cucciolo di ochi, abbandonato dal suo branco, ed è decisa ad aiutarlo. La ragazza s'imbarca così in un'avventura nella foresta alla ricerca del branco di ochi, per permettere al piccolo di riunirsi alla sua famiglia.
Nel cast del film troviamo Willem Dafoe, Emily Watson e Finn Wolfhard.

Con Willem Dafoe Finn Wolfhard Emily Watson Helena Zengel Razvan Stoica Carol Bors

Produzione: USA , 2025 , 96min.

THE LEGEND OF OCHI | Trailer italiano ufficiale HD

Ci si immerge ne "La Leggenda di Ochi" con la speranza di riscoprire una magia perduta, quella di un cinema tattile, figlio di un'epoca in cui gli effetti speciali erano materia di ingegno artigianale più che di algoritmi. E, sotto questo aspetto, l'opera prima di Isaiah Saxon si presenta come un sincero atto d'amore verso pupazzi animatronici, maestose pitture matte e una fisicità che credevamo relegata ai manuali di storia del cinema. L'isola fittizia di Carpathia, con i suoi ritmi ancestrali e la presenza dei misteriosi "ochi" – primati bluastri dalla singolare musicalità vocale – promette un'avventura dal sapore antico. Peccato che a questa impalcatura visiva e sonora di rara bellezza corrisponda una narrazione che arranca, prigioniera di stereotipi e di una stridente indecisione tonale.

La premessa, pur con le sue creature fantastiche, riecheggia echi di narrazioni già sentite: la giovane Yuri, introversa e devota al black metal, in rotta con un padre cacciatore (un Willem Dafoe che naviga con la consueta abilità in ruoli bizzarri e tormentati), trova un cucciolo di ochi ferito. Inizia così un viaggio di formazione che è anche riscoperta del legame materno e presa di coscienza. Il regista cita E.T. e Miyazaki come numi tutelari, ma la magia di Spielberg e del maestro giapponese scaturiva da una profonda fede nella semplicità della storia e nella sua risonanza emotiva. Saxon, al contrario, sembra diffidare della propria creatura, infarcendola di stacchi di montaggio improvvisi e personaggi volutamente eccentrici, quasi a voler strizzare l'occhio allo spettatore più smaliziato. Questa continua ricerca di una "firma" postmoderna, forse un'impronta della scuderia A24, finisce per sabotare l'immersione, creando una distanza laddove servirebbe empatia.

Il film oscilla pericolosamente: vorrebbe essere una fiaba, ma manca di quel "cuore oscuro", di quel senso di minaccia tangibile che, per esempio, rendeva indimenticabile un'opera come "Labyrinth". Il conflitto si stempera in soluzioni che ammiccano a un rassicurante universo disneyano, tradendo le premesse più cupe. Il risultato è un'opera che si percepisce come eccessivamente caricata nei suoi tentativi di originalità, ma al contempo troppo convenzionale nella sua ossatura per affascinare un pubblico adulto avvezzo a narrazioni più complesse. Resta, purtroppo, lettera morta sul piano emotivo.

Sul versante attoriale, Helena Zengel, già folgorante in "System Crasher", conferma il suo talento nel ruolo di Yuri, trasmettendo con intensità il tumulto interiore del personaggio. Emily Watson, in un ruolo che il regista definisce quasi da "maestra Jedi", offre una performance solida, benché il suo personaggio soffra di occasionali e poco motivate sferzate di violenza. Francamente superflua, se non controproducente, appare invece la presenza di Finn Wolfhard: un nome di richiamo per il pubblico giovane, certo, ma il suo volto noto distrae in un ruolo minore, originariamente pensato per un attore non professionista, spezzando l'incantesimo di un mondo che vorrebbe essere altro.

Dove "La Leggenda di Ochi" trionfa incontrastato è nella sua magnifica realizzazione artigianale. L'animazione degli ochi è una vera gioia per gli occhi: il cucciolo, un animatronic mosso da un team di tecnici (sulla scia del Grogu mandaloriano), e gli adulti, attori in costume con teste animatroniche per i primi piani, possiedono una vitalità espressiva sorprendente, reminiscenza del "Pianeta delle Scimmie" originale. L'uso sapiente della pittura matte, che ritocca i fotogrammi trasformando gli sfondi con una qualità pittorica e vagamente surreale, coadiuvato dalle luci evocative di Evan Prosofsky, regala sequenze di pura bellezza visiva. E che dire della colonna sonora di David Longstreth? Un crescendo wagneriano iniziale che si evolve in un commento musicale onnipresente e potente, conferendo alla pellicola un incedere sinfonico. Persino i versi degli ochi, frutto di un meticoloso lavoro che mixa al 90% la voce di un cantante a suoni aviari, contribuiscono a creare un universo sonoro unico.

In conclusione, "La Leggenda di Ochi" è un'opera che lascia l'amaro in bocca. Si ammira lo sforzo produttivo, la dedizione quasi filologica a un cinema analogico, la cura maniacale per il dettaglio visivo e sonoro. È un film che si guarda con stupore per la sua confezione, un oggetto raro nel panorama contemporaneo. Tuttavia, questa straordinaria perizia tecnica non riesce a mascherare una fragilità narrativa e una carenza di autentica profondità emotiva. Un gioiello di artigianato che avrebbe meritato una storia più coraggiosa e coerente, capace di scaldare veramente il cuore oltre che appagare lo sguardo. Resta un encomiabile, seppur incompiuto, atto di fede nel potere del cinema fatto a mano.