
Fuori
Un film di Mario Martone
Fuori, il film diretto da Mario Martone, racconta un momento cruciale nella vita della scrittrice Goliarda Sapienza (Valeria Golino), ispirandosi a una vicenda reale.
È il 1980, e Goliarda finisce in carcere per un gesto impulsivo, il furto di alcuni gioielli. Ma quella che potrebbe sembrare una caduta è, in realtà, l’inizio di una rinascita. Tra le mura del carcere, in un luogo di esclusione e marginalità, la scrittrice entra in contatto con un gruppo di giovani detenute. Tra loro nasce un dialogo autentico, fatto di solidarietà femminile, confidenze e scambi sinceri. È un’umanità viva, bruciante, che riaccende in Goliarda la voglia di vivere e di scrivere.
Una volta fuori, nella Roma torrida e sospesa di un’estate anni Ottanta, Goliarda continua a frequentare quelle stesse donne, ormai libere come anche loro. In particolare, stringe un legame intenso con Roberta, una delinquente e attivista politica, con cui condivide un’intimità e una complicità che il mondo esterno fatica a comprendere. Ma è proprio quel rapporto profondo a restituirle energia e parole.
Fuori è il racconto di una trasformazione, di un legame inaspettato e di una libertà ritrovata dove meno ci si aspetterebbe.
Con Valeria Golino Matilda De Angelis Elodie Sylvia De Fanti Stefano Dionisi Francesco Gheghi
Produzione: Italia , 2025 , 115min.
Mario Martone, con la consueta sensibilità nel navigare le complesse geografie dell'animo umano, ci conduce in "Fuori" attraverso il limbo esistenziale di Goliarda Sapienza, figura letteraria tanto tormentata quanto luminosa. Siamo nella Roma del 1980: la scrittrice, interpretata da una Valeria Golino mimetica e vibrante, ha appena lasciato il carcere. Ma la libertà riconquistata ha il sapore amaro di un'estraneità, di un mondo – la cosiddetta "normalità" – che fatica a riconoscerla e che lei stessa percepisce come una gabbia più sottile, ma non meno opprimente.
Il film, che attinge dichiaratamente ai romanzi autobiografici di Sapienza sulla sua esperienza detentiva, non si limita alla cronaca di un reinserimento difficile, segnato dalla precarietà economica e dalla frustrante ricerca di un editore per il suo capolavoro incompreso, "L'arte della gioia". Martone e la co-sceneggiatrice Ippolita di Majo scavano più a fondo, radiografando lo spaesamento di un'intellettuale refrattaria alle convenzioni, il cui bisogno di autenticità la spinge a trovare un conforto più genuino nella solidarietà viscerale delle ex compagne di cella, Roberta e Barbara, piuttosto che nei salotti dell'intellighenzia.
È in questo triangolo femminile che pulsa il cuore del film. Roberta, sorta di incarnazione della Modesta de "L'arte della gioia" in una chiave post-anni di piombo – eversiva ma disillusa – è un "cavallo selvaggio" a cui Goliarda guarda con un misto di affetto materno e identificazione proiettiva. È il suo alter ego indomito, più audace. Golino, che ha lungamente studiato Sapienza preparandosi anche alla regia della serie tratta dal suo romanzo-fiume, ne restituisce magistralmente l'elusività, quel vagare peripatetico che è metafora di una non appartenenza radicale, non tanto a un'epoca, quanto all'esistenza stessa. La sua è una performance in sottrazione, che evita con intelligenza le facili derive istrioniche del "genio e sregolatezza", privilegiando una malinconica tenerezza, specchio del profondo rispetto per l'autrice e per il suo grido inascoltato: "Quel libro sono io".
Matilda De Angelis (Roberta) ed Elodie (Barbara) sono controparti elettriche e intense, capaci di dar vita a duelli verbali che diventano agili trielli con l'inserimento di Goliarda. Questi scambi, carichi di una vitalità sanguigna e a tratti sfacciata, sono squarci di autenticità che squarciano il velo del silenzio e della solitudine, nel tentativo disperato di dare un senso a un'esistenza che le vede "dentro anche quando sono fuori". Emblematica, in tal senso, la toccante sequenza del canto corale fuori da Rebibbia, un ponte sonoro che unisce chi è dentro e chi, pur fuori, si sente ancora prigioniero.
La regia di Martone asseconda con sapienza questa dinamica, adottando un andamento narrativo volutamente scomposto, quasi a riecheggiare la scrittura fluviale e torrenziale de "L'arte della gioia". Le protagoniste si muovono in uno spazio liminale, quasi sganciate dalla realtà contingente, e il loro "essere uscite" è venato di un sottile rimpianto e di un palpabile timore verso quella "piccola galera giudicante" che è la società.
"Fuori" si configura così come un'opera squisitamente femminile nell'anima, pur realizzata con la delicata maestria di collaboratori maschili di pregio come il direttore della fotografia Paolo Carnera e il montatore Jacopo Quadri. È un racconto fedele di un percorso interiore che, pur disordinato nell'apparenza, rivela una coerenza profonda, portando con sé un'eco del cinema di Cassavetes nella sua capacità di aderire emotivamente alla complessità dell'animo femminile, senza la costrizione di una trama canonica. Perché, come nella vita, non c'è un canovaccio predefinito, ma solo esseri umani che annaspano, cercando disperatamente di rimanere a galla nel mare magnum dell'esistenza. E in questo, il film di Martone trova la sua perturbante, dolente verità.



